Chiediamo di fissare quanto prima l’udienza di merito per accertare tutte le responsabilità in capo all’ATS Pavia.
Nonostante la deroga della regione Lombardia a movimentare suini e il via libera della Commissione europea, che aveva allentato le misure restrittive per la Peste Suina Africana per circa il 90% degli allevamenti presenti nella provincia di Pavia, persiste il rifiuto della maggior parte dei macelli di accettare e macellare i suini provenienti dalla provincia di Pavia.
Ancora una volta, torniamo a vedere una schizofrenia nella gestione di questa malattia: se da un lato per i suini del Rifugio Cuori Liberi non c’era possibilità di deroga alcuna alle misure ordinate dal Commissario per la PSA e l’ATS è intervenuta mettendo in atto la sentenza di morte su suini liberi e non destinati a produzione alimentare, dall’altro, invece, gli allevatori del comparto suinicolo fanno appello alla Regione Lombardia affinché venga chiesto all’unità organizzativa veterinaria di convocare i macelli per dare rassicurazioni sulla qualità e sulla sicurezza delle carni.
Siamo nuovamente al paradosso: suini liberi, non destinati a produzione alimentare, accuditi in un rifugio isolato vengono uccisi anche se asintomatici, mentre per i suini degli allevamenti addirittura in zona di restrizione, si ottengono deroghe e si chiede all’unità veterinaria di tranquillizzare i macelli sulla sicurezza delle carni.
Nei titoloni di giornale che parlano dell’emergenza suini bloccati in allevamento, inoltre, nessuno che per sbaglio si preoccupi di parlare delle condizioni dei tantissimi suini allevati nei capannoni già con densità altissime di animali, fermi da tempo.
Mancano fortemente voci discordanti che mettano in discussione questo modello di produzione, che proprio in momenti di emergenze sanitarie mostra tutta la sua fragilità e autodistruzione.
La zootecnia è un’industria crudele, che uccide sistematicamente decine di milioni di animali dopo averli costretti a vite di sofferenza.
Si parla di strutture che “sono allo stremo” perché, proprio per come sono costruite, faticano a tenere al loro interno i suini “in eccedenza”, perché “troppo” cresciuti, perché rimasti oltre il tempo prestabilito dalla catena produttiva, e quindi del tutto inadeguate a garantire condizioni minime di vita. Nulla di naturale esiste in queste strutture. Luoghi infernali di sfruttamento.
Eppure, l’unica preoccupazione resta economica: “capi” vengono chiamati i 25 mila suini ancora fermi negli allevamenti del pavese ed il pensiero non va né al loro stato di salute, né agli aspetti sanitari della PSA.
L’unica urgenza rimane macellare quegli animali prima che non siano più fonte di guadagno e prevedere ristori per gli allevatori.
Il paradosso riguarda proprio i finanziamenti che spettano agli allevamenti, anche a quelli più volte denunciati da LAV, e non invece ai rifugi, che fungono come veri e propri presidi di legalità, con alto valore culturale ed educativo, e che tuttavia nulla ricevono dalla finanza pubblica.