La leggina Lollobrigida è di fatto inapplicabile. Inviata la richiesta apertura della procedura d’infrazione.
Oggi davanti al Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare abbiamo ricordato alla vigilia della sua entrata in vigore, che la Legge n.651 contro la carne coltivata e le denominazioni “meat-sounding” è un provvedimento ideologico e antiscientifico volto solo a tutelare gli interessi della lobby della carne e ad ostacolare la transizione alimentare a danno del Paese tutto.
La Legge contro la carne coltivata del Ministro Lollobrigida è un provvedimento ideologico e antiscientifico, volto a bloccare la transizione alimentare e la diffusione dei prodotti 100% vegetali. Oggi abbiamo dimostrato quanto insensato esso sia. Con alimenti plant-based dalle denominazioni “meat-sounding” e cartelli che mettono a confronto carne coltivata e macellata, abbiamo sottolineato che le alternative ai prodotti di origine animale, ottenuti quindi tramite sofferenza e morte, sono opzioni valide, sane ed etiche e la loro diffusione non sarà arginata nonostante gli sforzi del Ministro. Inoltre, i prodotti da agricoltura cellulare possono rappresentare un valido supporto alla trasformazione dell’attuale sistema alimentare per tutte quelle persone che non intendono adottare un’alimentazione 100% vegetale: il Governo avrebbe il dovere di supportarle piuttosto che combatterle. L’obiettivo di questa Legge, però, è proteggere gli interessi della zootecnia, senza alcun rispetto per gli animali, il clima o i cittadini, ma sappiamo che l’Europa non potrà far altro che aprire la procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia
La Legge, promulgata il 1° dicembre in contemporanea all’invio della notifica all’Europa, seguendo un iter più unico che raro, rappresenta un dichiarato intento a ostacolare la progressiva evoluzione del sistema alimentare italiano verso produzioni vegetali e alternative a quelle di origine animale.
Un tentativo che varrà all’Italia l’apertura della procedura d’infrazione da parte dell’Europa, la quale valuterà il provvedimento secondo la procedura TRIS, che prevede un periodo di tre mesi, rinnovabile per altri tre, in cui la Commissione Europea potrà commentare e modificare l’atto normativo.
La Legge infatti pone il veto sul commercio di un prodotto alimentare non ancora esistente in Europa, anticipando addirittura il parere dell’autorità per la Sicurezza Alimentare (EFSA), organo scientifico deputato a tale valutazione, e sull’uso di denominazioni “meat-sounding”, come burger vegetale o polpette vegane, che potrebbero alterare gli equilibri del mercato comunitario, pesantemente sfavorendo l’Italia.
La carne coltivata, come LAV ha rimarcato più volte anche con un position paper in materia, è una delle vie possibili con cui supportare l’inevitabile e necessaria transizione alimentare. Analoga per caratteristiche alla carne proveniente da macellazione, quindi dall’uccisione di esseri senzienti, risulta negli studi condotti finora sicura e potenzialmente molto meno inquinante rispetto alle produzioni zootecniche, ma soprattutto permette di offrire alle persone un’alternativa per cui “l’unica differenza è la sofferenza”, come riportato anche dai uno dei cartelli esposti durante il sit-in.
Inoltre, le denominazioni “meat-sounding” sono usate per designare alimenti plant-based da oltre vent’anni, lo testimonia ad esempio l’Accademia della Crusca, che sul proprio sito riporta “veggie burger è un composto inglese entrato in testi di lingua italiana a partire dalla fine degli anni ’90 e sta registrando numerose e crescenti occorrenze sul web, sui giornali, sui libri”. L’uso di queste terminologie non desta confusione nei consumatori, che ne sono anzi avvezzi, dato confermato da numerosi sondaggi, come quello svolto da Unionfood sulla comprensione dei consumatori in merito a tali prodotti. Dall’indagine è emerso che le persone scelgono di consumare prodotti vegetali per diverse ragioni, di salute, etiche, o ambientali, ma nondimeno l’80% dei soggetti partecipanti all’indagine ha dichiarato di comprendere con chiarezza quanto riportato sulle etichette, ritenute semplici da leggere, comprensibili e non fuorvianti.
Cambiarle non solo determina un immediato costo per tutti i produttori nazionali, ma anche un potenziale danno economico derivante dalla delocalizzazione delle produzioni, e dalla ridotta familiarità dei consumatori con le nuove denominazioni, con la conseguenza di perdita di opportunità commerciali per le imprese nazionali non solo in Italia ma in tutta l’UE.