Un calcio netto, forte, violento e il gattino sbatte prima violentemente su un muro per cadere a terra tramortito, mentre il ragazzino torna con andatura spavalda sui suoi passi, accompagnato da sguardi e commenti compiaciuti di altri ragazzi. Un gesto premeditato, calcolato, da immortalare in un video da condividere sui social, quale viatico per un ego insensibile, di una giovane quanto vuota esistenza, alla ricerca di un significato, di un crudele momento di gloria che riempie il suo vuoto. La sofferenza come spettacolo, il dolore altrui come risposta a impulsi distruttivi ma anche come affermazione di un proprio ruolo.
Si sa che la cultura in cui si sviluppano forme di violenza contro gli animali ha come riferimento un modello di vita basato sulla prevaricazione, l’aggressività sistematica, il disprezzo per le ragioni altrui.
Il fatto, accaduto nella periferia di Napoli e che ha visto come protagonisti negativi ragazzini, forse neanche 14enni, ha suscitato, giustamente, sdegno, orrore e richieste di giustizia. Giustizia… ci potrà mai essere giustizia per un fatto simile? Al di là degli aspetti giuridici, della questione dello stato di imputabilità dell’autore, delle pene blande previste dal nostro ordinamento, quale giustizia può essere davvero giusta per un gesto simile?
Non è l’indifferenza verso la sofferenza, ma al contrario è la ricerca della sofferenza, la sua sperimentazione, la sua esperienza a guidare gesti simili.
Il dolore spettacolarizzato, la morte, il dolore dei dolori, la madre di tutti i dolori che viene magnificata con il filmato del telefonino. Così la sofferenza diventa virtuale. La logica e la razionalità non guidano il cuore umano, anche se possono spiegare gli impulsi umani. Sarebbe interessante sapere qualcosa di più di questo ragazzino. Capire dove vive, qual è il suo contesto familiare. Spesso essere vivi non è la stessa cosa che avere una vita da vivere, dotata di significato. E il significato può essere cercato anche nella sofferenza, una sorta di danza piacevole della propria misera vita.
Resta ferma, però, l’esigenza di porre dei limiti non solo etici e culturali, ma anche sociali. Non si deve correre il rischio che finito lo sdegno si archivi il caso.
Sarebbe non solo l’ennesima sconfitta ma un gesto dalle conseguenze imprevedibili: “La peggiore cosa che possa succedere ad un bambino è fare del male ad un animale e non subirne conseguenze. La crudeltà contro gli animali uccide il rispetto per la vita”. Così l’antropologa Margaret Mead, già nel lontano 1964. Laddove non arriva il Diritto possono e devono arrivare le scienze sociali, se non vogliamo creare colture suburbane di bacilli criminali, virulenti come pandemie.
Ciro Troiano
Criminologo, resp. Osservatorio Zoomafia LAV