“L’allevamento intensivo non urta solo la sensibilità dei popoli in merito alla tutela del benessere degli animali. L’aspetto di cui spesso la popolazione non è consapevole riguarda il rischio diretto che gli allevamenti intensivi comportano per la salute umana e il rischio correlato ai danni ambientali che essi generano, compreso il contributo per nulla trascurabile al riscaldamento globale. Nessuno più nel mondo scientifico contesta questi danni”.
Così si legge nel rapporto ISDE “Allevamento intensivo e allevamento biologico”, in cui l’Associazione Medici per l’Ambiente sottolinea la necessità urgente di un cambio netto del modello agroalimentare che per oltre cinquant’anni ha stravolto le pratiche di produzione tenendole ben nascoste agli occhi dei cittadini.
Quando si parla di tradizione, è molto importante essere certi di cosa si sta parlando. Animali stipati in capannoni, che non vedono mai la luce del sole, non mettono piede sulla terra, non possono interagire tra loro, confinati in spazi angusti e spesso isolati, che non respirano altro che l’aria pungente, densa di polvere ed ammoniaca, il cui ricambio è solo possibile grazie a ventilazione artificiale: della tradizione non si conserva nulla, se non l’epilogo in cui l’animale, sfruttato per tutta la sua breve e misera vita, viene condotto al macello per essere smembrato e impacchettato in vaschette con etichette bucoliche raffiguranti un mondo naturale che quegli animali non sanno nemmeno possa esistere.
Il report riprende un dato sconcertante ormai noto: se i consumi non cambiano, nel 2050 sarà necessario aumentare del 70% la produzione di proteine animali, come conseguenza dell’aumento della popolazione globale. Il punto cruciale viene però riportato poco dopo: il calcolo di questo incremento non è dettato da una vera necessità nutrizionale, bensì dalla richiesta del mercato.
Abbiamo quindi due strade davanti a noi: in quanto consumatori, possiamo fare scelte sempre più consapevoli. In quanto cittadini, dobbiamo pretendere che le istituzioni e la politica si assumano la responsabilità di un cambiamento epocale e non più differibile. Infatti, se sono sempre più le persone che scelgono di alimentarsi in modo sostenibile ed etico, lasciando la sofferenza degli animali fuori dal proprio menù, questo cambio di rotta non può essere demandato unicamente alla scelta individuale. È necessaria una vera “rivoluzione verde” (come viene chiamata nel rapporto) che preveda un totale ripensamento della struttura produttiva.
Il cambiamento deve coinvolgere tutti i Paesi: quelli ricchi, responsabili di aver dato vita a questo modello insostenibile e dei suoi enormi danni, e quelli emergenti, che stanno seguendo le orme di chi prima di loro ha distrutto l’ambiente, sfruttato gli animali rendendole mere macchine da produzione, e danneggiato la salute umana.
Non c’è un Pianeta B, e non esiste un piano B che ci consenta di salvaguardare la Terra che ci ospita: dobbiamo rivedere il rapporto malato che abbiamo con gli animali prima che sia davvero troppo tardi e favorire il passaggio rapido ad un’alimentazione plant-based, in cui di sfruttamento animale non ci sia nemmeno l’ombra.