Le azioni erano mostruose,
ma chi le fece era pressoché normale,
né demoniaco né mostruoso.
Hannah Arendt
Prima un colpo di pistola alla testa. Poi è stato esposto, trofeo di un freddo safari domenicale, a sguardi bramosi, mentre un tizio, veterinario dello zoo, novella versione asettica del boia in tuta bianca e guanti verdi, brandendo un coltello, spiegava con aria compita, distaccata e fredda, i motivi dell’abbattimento. Così è stato ucciso in un zoo a Copenaghen, Marius, una giraffa di 18 mesi. Poi sempre lui, il gelido tizio in tuta bianca, con estrema naturalezza, come se nulla fosse, ha affondato il coltello nel corpo privo di vita della giraffa, e ha iniziato a sezionarlo, a farlo a pezzi, innanzi a famiglie, bambini, giornalisti, macchine fotografiche e videocamere. Il dolore spettacolarizzato, la morte, il dolore dei dolori, la madre di tutti i dolori che viene magnificata con riprese video e foto.
Il direttore scientifico dello zoo ha spiegato che i geni di Marius sono già ben rappresentati tra le giraffe dello zoo. Eliminarlo è stato necessario per evitare la consanguineità nel gruppo e mantenere bene la popolazione delle giraffe. «Se tutte le specie si riproducono bene, poi si deve accettare che ci sia un surplus di animali che non possono essere inclusi nella catena genetica senza causare problemi di consanguineità».
Parole agghiaccianti quanto banali che evocano scenari eugenetici e drammi indicibili che hanno costellato la storia dell’(in)umanità; novello manifesto del totalitarispecismo, trionfo di una cultura della supremazia che riduce un essere vivente in una mera cosa, un oggetto, un involucro da aprire per mostrarne il contenuto a sguardi narcotizzati, bramosi di scene inaudite, incapaci di collegare quel corpo straziato a un essere che poco prima era vivo, provava emozioni, si rappresentava nel suo mondo, viveva la sua vita. Apoteosi della convinzione che tutto è possibile alla specie umana e tutto può essere dominato e distrutto.
“L’uomo come spettatore estetico è spinto a disinteressarsi addirittura della vita e della sofferenza dei suoi simili pur di godere di uno spettacolo.” Sosteneva Soren Kierkegaard, e quella piccola folla, abbacinata dal supplizio, lo conferma.
Come può una madre portare il proprio figlio a vedere uno strazio simile? Quando l’impossibile è stato reso possibile, diventa il male assoluto, imperdonabile, che non può più essere compreso, spiegato, perdonato. L’esposizione a scene di violenza, la normalizzazione del dolore altrui, l’accettazione impassibile della sofferenza degli altri, obnubila le coscienze, rende familiare la brutalità e crea sudditi ossequiosi e ubbidienti.
E questo lo sanno bene le varie mafie e i sistemi totalitari in genere. Non è un caso che alle giovani reclute dei clan, spesso ancora bambini, viene chiesto di uccidere un animale -un cane, un cavallo, un vitello- abbattendolo a colpi di pistola: chi ha remore nell’uccidere un animale, non sarà mai un bravo killer.
Le future vittime umane, di contro, sono declassate a “bestie”, vengono private del loro essere “umani”, sono considerate specie inferiore, verso le quali è legittima ogni forma di violenza. Quali dinamiche innesteranno nei bambini immagini simili non lo sapremo, ma una cosa è certa, non le dimenticheranno mai.
Azioni mostruose sì, ma chi le ha fatte è banalmente normale, né demoniaco né mostruoso.
Ciro Troiano, criminologo, responsabile Osservatorio Nazionale Zoomafia LAV