Tempo fa, nel corso di un progetto educativo in un istituto di detenzione minorile, proposi ai ragazzi alcuni video.
La loro innata vivacità svanì quando videro immagini relative ad animali prigionieri in gabbie, recinti e celle, delle varie istituzioni totali in cui la specie umana imprigiona le altre specie: zoo, serragli, allevamenti.
Nella sala cadde un silenzio irreale che mantenne la sua cappa anche dopo la fine del video: silenzio che fu interrotto dalla voce sommessa di un ragazzo, il quale, parlando fra sé e sé, disse: “Io sto qui perché ho commesso un reato, ma quale reato hanno commesso questi animali?”.
Papillon è stato catturato, come un pericoloso latitante, è stato assicurato alla giustizia antropocentrica, quella che antepone gli interessi della specie umana a quelli delle altre specie.
La sua colpa è quella di aver sconfinato dallo spazio in cui, insieme alle altre specie selvatiche, era stato relegato. Un confine più che geografico, ideologico, che separa l’animale e gli interessi umani, per i quali vale di più una rete di una cascina rotta che la libertà di un essere senziente. Per questo grave crimine di lesa maestà umana, il suo futuro è quello da recluso in un dispositivo di disciplinamento, come lo definirebbe Foucault.
Papillon ha un nome solo grazie alla sua precedente fuga, perché in realtà ufficialmente viene indicato con la sigla M49. Sigle, numeri, matricole, mirano all’annullamento di qualsiasi istanza animale e di ogni dignità; tendono a rendere anonimo un essere vivente: non ha un nome, non è.
Nel momento in cui gli è stata affibbiata una sigla è diventato un oggetto incasellato nel sistema del dominio umano, nella macchina antropologica, per richiamare Agamben.
C’è da chiedersi cosa ci abbia insegnato il nostro isolamento di queste settimane, vissuto dai più come vera cattività, se poi assistiamo impassibili alla cattura di un animale che non cercava altro che la libertà di essere un orso.
Ciro Troiano
Criminologo, responsabile Osservatorio Zoomafia LAV