Il Tribunale di Brescia il 23 gennaio 2015 ha dichiarato Rondot Ghislaine, legale rappresentante della Green Hill 2001 srl, Renzo Graziosi direttore sanitario della struttura e Roberto Bravi, direttore generale colpevoli dei reati loro ascritti, maltrattamento (544 ter c.p. I e III comma) ed uccisione di animali (544 bis c.p.), condannando i primi due un anno e mezzo di reclusione, mentre per Bravi è stata comminata la pena di un anno di reclusione. E’ stata inoltre disposta la confisca di tutti gli animali e per tutti gli imputati è stata disposta la pena accessoria della sospensione della loro attività professionale di allevamento per due anni in base all’articolo 544 sexies c.p.
In attesa di leggere le motivazioni, che il Giudice depositerà in sessanta giorni, sono possibili alcuni rilievi iniziali. Si è trattato di un processo coraggioso, innovativo e storico per i diritti degli animali, incentrato da parte della Procura di Brescia sulla necessità del rispetto della legalità nell’ambito della sperimentazione animale, ambito che da sempre si ritiene intoccabile, proprio perché operante in un settore ritenuto ‘superiore’ e dunque privo di vincoli, anche grazie alla superficialità dei controlli pubblici svolti.
Eppure i vincoli normativi ci sono eccome, anzi sono sempre maggiori, basti pensare che nelle more delle indagini il Parlamento approvava il nuovo decreto sulla protezione degli animali nella sperimentazione animale (D. lgs n 26 del 4 marzo 2014) che tra le altre cose all’art 10 comma 5 interveniva a sancire in via definitiva il divieto di allevamento di cani per la vivisezione, dunque il divieto di aziende come la Green Hill 2001 srl, che anche se i suoi vertici fossero stati assolti non avrebbe comunque più potuto riaprire.
E quindi il rispetto dell’etologia degli animali allevati, lo sgambamento quotidiano, le temperature regolari, cure e terapie adeguate per tutti gli animali, condizioni di detenzione che non ne causassero la morte per soffocamento con la segatura, presidi sanitari permanenti ed adeguati che non lasciassero gli animali abbandonati a morire durante la notte per patologie non curate, tutto ciò è stato ritenuto necessario dal Tribunale di Brescia, non per ‘animalismo’, ma perchè lo prevede la norma, ovvero l’art 5 e l’allegato II del decreto legislativo 116 del 1992 in combinato disposto con gli at.li 544 bis e ter c.p., come già rilevato dai vari Tribunali del Riesame (Tribunale del Riesame di Brescia 18 aprile 2013, Tribunale del Riesame di Brescia 17 novembre 2012, Tribunale del Riesame di Brescia 1 agosto 2012) che avevano preceduto l’inizio del processo e dalla Terza Sezione della Cassazione (Corte di Cassazione, sez. III Penale sentenza 11 aprile 2013, n. 16497) che era intervenuta incidentalmente sul caso.
E’ questa la chiave di lettura di tutto il processo, in quanto sia gli imputati, ma anche e soprattutto gli organi che prima del NIRDA (Nucleo specializzato del Corpo Forestale dello Stato in materia di reati in danno degli animali) e del Comando provinciale del CFS, avevano il compito di controllare la struttura da un punto di vista sanitario, hanno arbitrariamente ritenuto che l’attività commerciale, sol perché si trattava di un allevamento di cani per la vivisezione era scevra da stringenti vincoli normativi.
Le norme invece esistono e sono chiare e univoche al di la della destinazione dell’animale che ne cambia si il quadro normativo di riferimento, ma non per questo permette uccisioni o maltrattamenti indiscriminati, che il cane sia destinato all’affezione o alla vivisezione nulla importa, se non ovviamente la destinazione finale diversa dell’animale, ma le norme per la sua protezione devono sempre essere applicate e da nessuna parte è scritto che un ‘prodotto invendibile’ possa essere eliminato o non curato, ad esempio.
Il Trattato Lisbona, norma paracostituzionale all’art 13 ricorda agli Stati membri che gli animali sono esseri senzienti, analogamente le direttive sulla sperimentazione e il relativo decreto che nascono ‘a protezione degli animali oggetto di vivisezione’ impongono la protezione del benessere degli animali allevati. Il principio giuridico generale da cui partire è la tutela dell’animale (art 5) , l’eccezione è la sua morte o sofferenza e questo è un dato che già in decine di processi analoghi (es. in materia di trasporti, allevamenti, circhi etc..) chi opera con animali per qualunque finalità commerciale ‘stenta’ ad accettare, perché? Evidentemente per ragioni economiche. Curare la salute fisica e psicofisica dei ‘prodotti’ costa. Quanto sarebbe costato avere più medici veterinari dentro Green Hill? Quanto sarebbe costato curare realmente animali con dermatiti e magari dopo destinarli a donazioni invece che trarne profitto?
Ciò che insegna questa sentenza, in attesa di leggere con attenzione le motivazioni, è che chi sceglie di produrre e trattare animali per fini commerciali anche destinandoli alla morte deve accettare e considerare la duplicità del bene giuridico che ha di fronte, un prodotto si, ma sui generis in quanto essere senziente protetto da specifiche normative internazionali, nazionali e comunitarie, e deve quindi obbligatoriamente adoperarsi per fare in modo che la compromissione del benessere di tali esseri senzienti sia esattamente limitata a ciò che dice la norma speciale, di settore, ogni travalicamento porterà altrimenti al delitto di uccisione e maltrattamento.
E per quanto riguarda il concetto di maltrattamento quale ‘comportamento insopportabile con le caratteristiche etologiche degli animali’ come recita l’art 544 ter c.p sulla falsariga di quanto già rilevato dalla Cassazione (Cass. Pen. Sez. III n. 5979/2012) per cui la nozione di “insopportabilità” deve “arrivare a ricomprendere nel proprio perimetro anche quelle condotte che […] siano insopportabili nel senso di una evidente e conclamata incompatibilità delle stesse con il ‘comportamento animale’ della specie di riferimento come ricostruito dalle scienze naturali, in tal senso dovendo infatti intendersi il concetto di caratteristiche etologiche impiegato dalla norma”, lungi dal limitarci a considerare soltanto percosse fisiche e ferimenti, il Tribunale di Brescia accoglie la tesi della Procura riferita ad un maltrattamento quale ‘privazione dei 2639 cani di razza beagle detenuti nell’allevamento dei loro pattern comportamentali (ovvero di tutte le attività vitali ed insopprimibili di ogni specie), in quanto detenuti in un ambiente inadeguato ad esprimere i comportamenti etologici propri della loro specie, attraverso una serie di eto-anomalie riscontrate (quali ad es. il c.d. freezing, paura, ansia, stereotipie, comportamenti ridiretti), manifestavano uno stato di stress cronico (c.d. distress)’.
Maltrattamento inteso quale mera deprivazione dell’etologia di un animale, anche se allevato per fini commerciali che ne prevedono la morte, un principio rivoluzionario per la storia dei diritti degli animali, che potrà essere applicato a tante altre strutture che ancora oggi credono (erroneamente) di allevare, utilizzare o commercializzare ‘res’ e non soggetti.
Avv.Carla Campanaro
Fonte foto: www.nature.com/