La Federazione Italiana degli Operatori dei Dipartimenti e dei Servizi delle Dipendenze (FeDerSerD) ha appena pubblicato sul numero di giugno della rivista Mission – un interessante articolo dal titolo significativo: La caccia oggi è una dipendenza patologica?
Partendo dall’analisi delle motivazioni che nel remoto passato potevano giustificare la caccia, l’autore dell’articolo evidenzia le concrete e dirimenti differenze tra le motivazioni che spingevano un cacciatore del neolitico ad armarsi di punte di selce affilate e quelle che sono alla base della caccia odierna, esercitata da persone dotate di ogni accessorio hi-tech per uccidere quanti più animali possibile.
In entrambi i casi viene individuata una dipendenza che, per il cacciatore del passato, è definita fisiologica, perché andava a caccia “spinto dai sistemi emotivi di base, per scopi di grande valore biologico: procurare il cibo a sé e ai suoi” a differenza del cacciatore contemporaneo che ha sviluppato una dipendenza patologica, caratterizzata dall’andare “a caccia spinto dagli identici sistemi emotivi di base, ma il suo comportamento ha perso l’originario valore biologico di assicurare la sopravvivenza a sé ed alla sua specie”.
L’analisi si spinge ancora più a fondo, individuando come i meccanismi psichici alla base del desiderio di cacciare siano di tipo primario, “che avvengono a un livello cerebrale arcaico, del tutto distinto dai fattori culturali che appartengono ai processi terziari, mediati dalla corteccia cerebrale”.
Ecco perché, nonostante i cacciatori si affannino nel cercare un paravento culturale che possa in qualche misura dare anche solo un minimo di dignità alla loro sanguinaria passione, “non è corretto parlare, per il desiderio di cacciare, di “cultura” o “tradizione”: tentativi di spiegazioni che sono razionalizzazioni di fenomeni molto più arcaici e profondi, alla base della caccia sia come dipendenza fisiologica dell’uomo neolitico, sia come dipendenza patologica oggi nelle società moderne”.
Quella che ne esce dall’articolo, è la figura di un cacciatore sostanzialmente “addicted”, di un dipendente patologico da un’attività che oggi non ha alcun senso di esistere.
“Chi ama le armi, potrà usarle come il sottoscritto ai poligoni di tiro – conclude l’autore - chi soffrisse per il bisogno insopprimibile (“craving”) di sparare ai selvatici, potrebbe usufruire, come per il gioco d’azzardo, di idonee terapie presso i Servizi pubblici per le dipendenze patologiche”.
“Era evidente anche agli occhi di un profano che uccidere degli esseri senzienti per puro ed esclusivo divertimento non potesse che essere il frutto di una patologia – dichiara Massimo Vitturi, responsabile LAV Animali Selvatici – ma ora questo articolo riporta solide basi scientifiche per sostenere che in Italia ci sono circa 500.000 persone che avrebbero bisogno di essere inserite in un percorso terapeutico".
La caccia è quindi non solo morte e sofferenza per milioni di animali, ma anche evidenza di un forte disagio sociale che dovrebbe essere preso in carico dal servizio sanitario, per assicurare le necessarie cure a coloro che ne sono affetti, distogliendoli dalla loro malata passione a beneficio dell’ambiente, degli animali, di quei cittadini uccisi dalle armi da caccia e infine anche di loro stessi.