Il manifesto di Collective Fashion Justice vuole rafforzare l'appello globale diretto ai brand e all'industria dell'abbigliamento.
Con l'avvio della Settimana della Moda di Milano i riflettori di tutto il mondo sono puntati verso le proposte dei brand che sfileranno nei prossimi giorni sulla più prestigiosa passerella del settore.
Lasciamo agli addetti ai lavori ogni commento su estetica, creatività, tradizione e innovazione delle proposte moda, ma facciamo nostro rilanciandolo l'appello di Collective Fashion Justice aderendo al Manifesto Total Ethics Fashion.
Chiediamo ai brand ed in primis alle case di moda italiane di dare priorità alla vita e al benessere delle persone (impiegate in ogni livello della produzione), al rispetto del Pianeta (sfruttato e degradato dalle produzioni moda) e degli animali (senza ricorrere alle false promesse di tutela tipiche delle cosiddette certificazioni “responsabili.
La deadline del 2030 è sempre più prossima ma l'intero sistema moda, nonostante le dichiarazioni e gli impegni assunti anche nell'ambito di note coalizioni internazionali sulla Sostenibilità, rischia di non raggiungere il traguardo degli Obiettivi per uno Sviluppo Sostenibile.
Un traguardo troppo spesso utilizzato come claim e sempre meno come reale e concreta consapevolezza della necessità di un cambiamento radicale del modello produttivo e di approvvigionamento di materie prime.
Senza andare troppo lontano verso Paesi asiatici carenti di normative e controlli, non possiamo non dimenticare le inchieste giudiziarie che solo nell'ultimo anno hanno interessato, qui in Italia, noti brand globali per avere commissionato le produzioni a società appositamente create al fine di massimizzare i profitti tramite pratiche illegali.
Si parla di caporalato, impiego irregolare e sfruttamento dei lavoratori negli opifici, assenza di condizioni di sicurezza, macchinari non a norma, manodopera irregolare e clandestina, sfruttamento dei prezzi (con articoli moda pagati poche decine di euro alla produzione ma rivenduti al cliente finale a migliaia di euro).
Anche per lo sfruttamento degli animali, che per l'industria dell'abbigliamento altro non sono che mere risorse di approvvigionamento di materiali (per le pelli, pellicce, piume per imbottiture o decorative, filati), i brand si affidano a certificazioni di filiera ideate dagli stessi produttori con la finalità di rassicurare i consumatori circa il buon trattamento degli animali.
Si tratta di certificazioni che, se analizzate nei protocolli gestionali, in realtà non assicurano mai alcun migliore trattamento rispetto ai minimi parametri di legge e che comunque non garantiscono una vita naturale (per qualità e durata) per ogni singolo animale che, suo malgrado, è parte della filiera.
Per incoraggiare le aziende della moda ad essere più sostenibili ed etiche, almeno per quanto riguarda l'impiego di materiali animali, noi di LAV abbiamo da tempo ideato il rating Animal Free Fashion.
Si tratta di un percorso verso la progressiva dismissione dei materiali animali scandito in quattro step principali e ai quali è assegnata una valutazione (V= stop all'uso di pellicce; VV=pellicce e piume; VVV= pellicce, piume, pelli; VVV+= pellicce piume, pelli e filati).
Tramite il nostro sito dedicato conferiamo valore alle corporate policy delle aziende moda, rendendole pubbliche, e mette a disposizione un database di Next-Gen Materials (materiali sostenibili di nuova generazione e privi di componenti animali).